Omelia della IV Domenica del tempo Ordinario

Fratelli e Sorelle carissimi, tutti coloro che erano presenti nella sinagoga rimasero impressionati, soggiogati, dalla forza delle parole di Gesù, dalla forza della sua personalità; e l’impressione se la scambiarono l’un l’altro. Il testo dice: “Tutti gli davano testimonianza”. Ma questo plauso era, sì, un ammettere la grandezza, ma nello stesso tempo era un parare il colpo, come noi ci comportiamo nei confronti di una persona di cui non condividiamo il pensiero e che senza offenderla le diciamo: “Lei ha ragione, ma credo che si debba considerare la cosa anche a partire da un altro punto di vista”. E così fecero quelli della sinagoga di Nazaret. Ammessa la forza di Gesù, negarono proprio quanto aveva detto Gesù, cioè di essere il Messia. Quelli della sinagoga di Nazaret osservarono che Gesù era il figlio del falegname: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”. E allora (Mt 13,54): “Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?”. Non negano i miracoli che ha fatto a Cafarnao, ma ciononostante tutto nutrono dei dubbi e allora egli li deve fare anche davanti a loro se li vuole convincere, e tanto più dal momento che egli ha certamente un obbligo di affetto per la sua patria. “Certamente voi mi citerete questo proverbio: ‹Medico, cura te stesso›”. Gesù, che ha dimostrato di conoscere il profondo dei loro pensieri, presenta le sue conclusioni con un’affermazione di principio: “Nessun profeta è bene accetto in patria”. Poi, a conferma della sua affermazione, Gesù presenta ai suoi osservatori, silenziosi e ostili, due esempi della Scrittura. Elia non fece un miracolo tra le tante vedove che c’erano in Israele, ma lo fece a beneficio di una vedova della Fenicia. Così Eliseo non guarì uno dei tanti lebbrosi di Israele, ma Naaman, il Siro. Le battute sono brevi, stringenti e coincise. Gesù ha di fronte a sé delle intelligenze poco propense alla ricerca della verità, ma agilissime nel creare cavilli, obiezioni. A trovare difetto dove egli non esisteva. Erano intelligenze intrise di superbia, e dove c’è superbia tutto ciò che è di Dio viene male interpretato. Il rivendicare il legame di patria, i legami del sangue, era un mettere alla prova Gesù, era il tentativo di irretirlo. Ma, si sentirono spiazzati, colti nel segno, vinti da un’intelligenza insuperabile, alla quale però non volevano sottomettersi, perché erano ostili all’obbedienza alla verità. Di Gesù si erano fatti un concetto di paese. Di paese, dove ognuno pretende di sapere tutto di tutti, confondendo le cose il più delle volte. Di paese, non bello, solidale, ma semibuio, dove ciascuno è etichettato fin dall’infanzia. Paese semibuio, dove l’immobilismo sociale è la regola, e se uno lo violenta è guardato con sospetto, con inimicizia, a meno che prima non paghi il tributo a chi di dovere e si inserisca nella trama dei legami del clientelismo, dell’opportunismo. Ma Gesù non era certo disposto a pagare un tributo alla logica di un paese semibuio. Non poteva diventare il “profeta domestico”, il “santone del paese”. Egli è la luce, che era andata a Nazaret per scacciare le tenebre del peccato e della morte. Capirono benissimo i suoi ascoltatori quello che Gesù aveva loro annunciato e, non avendo argomenti per affrontare un dialogo, passarono ad uno sfogo di sdegno. È la difesa del gruppo che non vuole cambiare e che si difende compattando se stesso dandosi allo sdegno e alla soppressione del disturbatore. “Tutti”, proprio tutti, cioè, tutti quelli che si erano stupiti di lui e che avevano dato testimonianza della potenza della sua personalità, lo cacciarono fuori dalla sinagoga ed erano pronti a lanciarlo giù da un precipizio; “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”. Non era la sua ora, né il suo sacrificio poteva compiersi se non a Gerusalemme. A Gerusalemme avvenne la stessa cosa, il Sinedrio si riempì di sdegno e Gesù fu buttato fuori dalla città, e ucciso per mano dei romani, ma era giunta la sua ora. Ci appare stupenda la fortezza di Gesù. Noi, fratelli e sorelle, seguiamo un eroe, un coraggioso. Gesù non si spaventa, va avanti, verso la croce. Ogni giorno il suo agire e dire gli prepara la croce; ogni giorno è un passo verso la croce. La fortezza di Gesù era la carità, la Misericordia e la mitezza. Ma Gesù è anche Giudice, che verrà a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine. La fortezza è uno dei sette doni dello Spirito Santo, ma essi sono tutti radicati nella carità. Che cosa sarebbe la fortezza se non fosse radicata nella carità? Sarebbe acidità, durezza, orgoglio, cocciutaggine. Che cosa è il timore di Dio senza la carità? Solo paura, terrore di Dio; e alla fine fuga da Dio, incolpando Dio. Che cosa sarebbe il dono della scienza senza la carità? Non sarebbe un dono, perché sarebbe solo un vuoto parlare, perché chi non ha la carità non conosce Dio, che è carità. Che cosa sarebbe il dono dell’intelletto senza la carità? Non sarebbe un dono, ma una perdita, una privazione del bene, un cercare cavilli sempre più astuti per negare la verità. Che cosa sarebbe il dono della pietà senza la carità? Non sarebbe un dono, ma diventerebbe un furto a noi stessi di quanto il nostro cuore ci suggerisce, per il nulla di un comportamento ipocrita, teso soltanto a ricevere il plauso e la condivisione degli altri. Gesù aveva nel cuore la più viva ed eccelsa fiamma di carità. Aveva la speranza, la speranza di vedere gli uomini aprirsi a lui, e la speranza è salda nella carità. San Paolo dice che la carità: “tutto spera”. Aveva fede, che in Gesù non era virtù teologale (Cf. Gv 3,13), ma fiducia nel Padre, e la fiducia è espressione d’amore confidente. Gesù – mi spiego – non aveva la fede teologale poiché l’anima di Gesù vedeva l’Essenza divina che era in Lui (Cf. Gv 3,13). Noi abbiamo invece la fede teologale e la fiducia in Dio, che è la speranza piena di abbandono, cioè unita alla fede e alla carità. La fede teologale è l’adesione viva alla verità – alle verità – rivelata da Dio e che la Chiesa ci propone di credere ciecamente; noi non abbiamo affatto la visione facciale (Cf. 1Cor 13,12) di Dio, realtà che è la beatitudine del cielo. Tutto in Gesù è centrato nella carità e anche in noi tutto deve essere centrato nella carità; essa resterà per sempre. La speranza nell’adempimento delle promesse di Dio nei nostri confronti non è unita all’amore a Dio? Come si fa a sperare in Dio se non lo si ama? E come si può amare coloro che vogliamo evangelizzare se non speriamo che si possono aprire al Vangelo? La stessa fede teologale può essere senza la carità? No, non può essere. La fede infatti non solo è credere in Dio, ma è anche credere a Dio, avere fiducia in lui; e la fiducia vuole non solo la fede, ma anche l’amore, quello vero ed autentico. Tre cose esistono, ci dice il brano della lettera ai Corinzi che abbiamo letto, “la fede, la speranza e la carità”. Tre cose, “ma la più grande di tutte è la carità”; essa rimarrà in eterno. Ecco, fratelli e sorelle, “Non spaventarti di fronte a loro” disse il Signore a Geremia, ii forte. Sii forte dice il Signore a ciascuno di noi; abbi fede ferma, speranza calma e carità ardente, senza misura.

Laudetur Iesus Christe. Semper Laudetur

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